L’IMPREVISTO

Da quando ho letto che il posto più sicuro in aereo è il corridoio, rinuncio alla vista dall’oblò. In questo viaggio, però non mi è possibile fare il check-in online perché il sistema mi dice che ho troppi voli e devo andare ogni volta al banco per registrarmi.
Sono sull’aereo che mi porta da Santiago del Cile all’isola di Pasqua, e questa volta ero riuscita ad avere un posto corridoio, ma per accontentare una coppia di anziani giapponesi che volevano stare vicini, ho ceduto al marito il mio posto, ah l’amour!
L’aereo è davvero confortevole e la vista abbastanza poetica anche se monotona, tutto sommato 5 ore sul Pacifico sono decisamente troppe; aggiungendo un bambino di 10 mesi che non ha mai smesso di piangere, e un vicino che non ha mai smesso di dormire impedendomi di andare al bagno, qualsivoglia rigurgito di romanticismo viene smorzato sul nascere.
La vista dell’oceano, però, con le nuvole che vi si specchiano induce alla riflessione.
È passato un mese dall’inizio del mio viaggio, è tempo di bilanci.
30 giorni possono essere un secolo ma anche un attimo.
Ho rivisto le interviste prima della partenza, ricordo il mio stato d’animo di allora, la paura del salto nel vuoto, la gioia per un sogno che si concretizza, l’euforia.
Quelle immagini sono lontane anni luce.
In un mese ho affrontato difficoltà pratiche, ho vissuto grandi emozioni, ho conosciuto molta gente, ho combattuto con me stessa.
Non mi manca niente dell’Italia. E mi manca tutto.
Santo cielo, un mese è volato, non voglio tornare così presto!
Ancora 4 mesi? No, non ce la posso fare!
La mia paura più grande era l’imprevisto, ed in un mese ho imparato a gestirlo, alla grande direi.
Perché quando parlavo di imprevisto immaginavo qualcuno che mi derubasse, o che la compagnia aerea mi perdesse il bagaglio, mai avrei ipotizzato l’eventualità di una comunicazione dall’altro capo del mondo in cui ti dicono che i tuoi esami non sono chiari, che non sanno se c’è qualcosa che non va, che potresti avere un cancro. O forse no.
Questo imprevisto non lo avevo considerato. Piuttosto la malaria o la dengue, o una malattia intestinale.
In un momento sento i neuroni che moltiplicano le loro connessioni, ma come cavie da laboratorio corrono sbattendo nella calotta cranica senza via di scampo alcuna.
Torno? Sì torno. E se non è niente? Perdo tutto.
Resto? Sì, continuo il viaggio. E se ho un cancro? Perdo tutto.
Ogni mattina nella mia regione incontaminata e avvelenata deliberatamente mi sveglio pensando a chi toccherà oggi. Troppa gente ho visto ammalarsi, e troppe persone morire. Perché non io, che qui ci vivo da 50 anni?
I pensieri sono milioni, e soltanto l’idea di dover affrontare un calvario già visto, facendolo sperimentare ai miei cari è impossibile da sostenere.

La sensazione di dovermi conquistare tutto con le unghie e con i denti diventa insopportabile.

Ma tant’è.
Era una sfida con me stessa e le sfide si vincono o si perdono.
Posso provare a superarla, come tutto il resto.
Il primo desiderio è chiamare in Italia per parlare in italiano con qualcuno a cui spiegare le mie emozioni: non sono sola!
Mi rialzo e cerco una buona clinica, con un buon medico per fare i miei controlli, e resto in contatto con i medici in Italia.
YOU DON’T HAVE CANCER
Il dottore è un bell’uomo e quelle parole suonano come la migliore dichiarazione d’amore di sempre.
Si riparte.
Ricomincio da qui.